STAMÁTA REVÍTHI
E LA MARATONA NEGATA
Una corsa solitaria a piedi scalzi da Maratona ad Atene, la polvere e il sudore sul volto scavato da un’esistenza sfortunata. I giudici del Comitato Olimpico Internazionale non l’hanno ammessa alla gara, ma Stamáta Revíthi ha deciso di correre lo stesso. Un passo dopo l’altro contro scetticismo e pregiudizio, con una tenacia e una voglia di riscatto che hanno del grandioso.
Sono i primi di aprile del 1896 e nella capitale greca si respira un clima di euforia. Allo stadio Panathinaiko sta per essere inaugurata la prima edizione dei Giochi Olimpici moderni del barone De Coubertin. L’evento, seguitissimo dalla stampa internazionale, attira atleti da 14 Paesi e appassionati da tutto il mondo. Ne parlano tutti, anche al Pireo, cittadina portuale ad appena 9 km da Atene, dove vive Stamáta Revíthi. È arrivata qualche tempo prima dall’isola di Siro, per amore. Ma ora, a meno di trent’anni, appare già invecchiata dalle troppe disgrazie patite. C’è chi la chiama Melpomene, raccontano, come la musa della tragedia: ha perso l’amore, abbandonata o forse vedova, ha perso il figlio primogenito per una delle tante malattie della miseria e ne ha un altro di poco più di un anno che non sa come sfamare. Se è vero come ha sentito, che in quei giorni tutto il mondo è ad Atene, trovare un lavoro non dovrebbe essere impossibile, pensa Stamáta, che affronta a piedi il cammino fino in città, il secondo figlio in braccio.
Lungo la strada incontra un corridore, contagiato come tanti in quei giorni dalla febbre delle Olimpiadi. Incuriosito nel vederla arrancare da sola su quella strada semi deserta, dopo aver ascoltato la sua storia, le regala dei soldi e le suggerisce di correre la maratona: potrebbe diventare famosa e fare fortuna. Un’idea folle, ma forse per disperazione, senz’altro convinta di poter correre al pari e meglio di un maschio come faceva a Siro un tempo, Revíthi si presenta a Maratona, decisa a partecipare. Il giorno dopo da lì partirà la gara più simbolica, almeno per i greci, delle nuove Olimpiadi.
Il regolamento di quei Giochi riflette la società dell’epoca, che alle donne preclude lo sport. I giudici tergiversano mentre Stamáta insiste che vuole depositare la sua iscrizione, attirando l’attenzione della piccola folla di atleti, curiosi e giornalisti. Nel capannello, un atleta greco la sfotte, dicendole che ci metterà così tanto, da trovare lo stadio già vuoto e chiuso al suo arrivo. Pensa piuttosto alle umiliazioni che avete già subìto in questi giorni dagli atleti americani, ribatte Stamáta. Lei farà quei 40 km al massimo in tre ore e mezza, pronostica spavalda ai cronisti. La mattina dopo il comitato organizzativo però, annuncia di aver respinto la domanda di iscrizione, ufficialmente perché presentata oltre i termini. Ma tutti sanno che è l’essere donna la vera causa dell’esclusione. Stamáta protesta, ma non c’è niente da fare. Gli organizzatori le promettono che potrà partecipare ad una gara femminile già fissata nei giorni successivi, gara che in realtà non avrà mai luogo. Intanto gli altri atleti partono allo start, sotto il suo naso. La maratona è vinta dal greco Spyridon Louis, che dopo poco meno di tre ore fa il suo ingresso trionfale con 7 minuti di vantaggio sugli avversari, davanti a centomila spettatori in festa sugli spalti.
Anche se assurde regole glielo impediscono, “Melpomene” vuole cambiare il suo destino, dimostrando che anche una donna può coprire quella distanza. Ha deciso che correrà comunque, da sola, fin dentro il Panathinaiko. E chissà che il re, colpito dalla sua impresa non decida di tenderle una mano, spera in cuor suo Stamáta. La mattina dopo tira giù dal letto il sindaco e il giudice di Maratona per farsi certificare ora e luogo di partenza della sua gara solitaria. Per tutto il percorso tiene un ritmo costante e poco dispendioso, fino all’arrivo ad Atene. Ma gli organizzatori le impediscono di entrare allo stadio. Per il barone de Coubertin non esiste altro mondo olimpico che quello maschile. Stamáta riesce tuttavia a ottenere che alcuni ufficiali dell’esercito mettano nero su bianco l’ora del suo arrivo. Ha coperto la distanza in 5 ore e mezza, due in più del previsto, ma poco importa. Stanca, sporca e sudata, annuncia trionfante ai cronisti che porterà le prove della sua impresa ai vertici ellenici del Comitato Olimpico.
Termina così quel poco che sappiamo dell’impresa straordinaria di Stamáta Revíthi, sospesa fra storia e leggenda, su cui Euripide di certo ci avrebbe scritto una storia memorabile. Il suo nome riemerge dall’oblio soltanto nel 1975, quando compare nell’Annuario dell’Atletica Femminile.
E solo nel 1984 la maratona femminile entra finalmente nel programma olimpico, con la vittoria dell’americana Joan Benoit, che a Los Angeles copre i 42,195 km in due 2h24’, 52”, quasi un secolo dopo la rivoluzionaria ostinazione di Stamáta Revíthi.