In prima frazione c’è Lorenzo Patta, l’esordiente sbarazzino che l’atletica, udite udite, ha “rubato” al calcio. Poi è toccato a Marcell Jacobs, appena reduce dal big bang dell’oro dei 100 metri.
Quindi, ecco Fausto Desalu, cresciuto a pane e sogni con sua madre, l’uomo della curva. Quindi l’estasi finale della rimonta di Filippo Tortu, schiantato dalla delusione della prova individuale ma strepitosamente risorto nella staffetta. Già, la staffetta: l’atletica che diventa squadra. E che squadra. E ora, in un’ordinaria mattinata romana, i quattro campioni del trionfo olimpico di Tokyo si ritrovano sotto un capannone che ha fatto la storia del loro sport.
Fu il professor Carlo Vittori, il tecnico mito della nostra atletica, a chiederne la costruzione per consentire di allenarsi anche in caso di pioggia. Siamo allo stadio Paolo Rosi, all’Acqua Acetosa. E i quattro moschettieri si ritrovano insieme dopo mesi. Hanno l’aria di chi è tornato da un lungo viaggio, un giro del mondo fatto di emozioni che poi è diventato un racconto pronunciato mille volte.
Non c’è più “Volare” trasmessa dall’altoparlante del National Stadium di Tokyo per celebrare il più impensabile dei successi italiani, con gli stessi protagonisti increduli durante le interviste post-gara. Solo il rumore delle auto che scorrono nell’adiacente via dei Campi Sportivi. I quattro si ritrovano, si raccontano, si ricordano. Ognuno con la sua storia, il suo modo di vivere la felicità più grande che possa capitare a un atleta. Ognuno con l’atletica che è stata e quella che sarà. Forse a un certo punto si guardano, si sorridono e in quegli sguardi e in quei sorrisi c’è solo una domanda: “Ma vi rendete conto di che cos’abbiamo fatto?”.